Fine: 11 dicembre 2013
Fatte
non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.
Credo che il succo di questo libricino di Stefan aus dem Siepen possa
essere questo. Con annessi e connessi e, ovviamente, con le debite differenze
rispetto al folle volo. È uno di quei libri dove la trama in sé non è un
granché e non è neppure importante, quel che conta è la morale, il messaggio
nascosto.
Sul
limitare del bosco, vicino ad un villaggio di contadini, un giorno di fine
estate appare il capo di una fune. È una bella fune, solida e spessa e non
appartiene a nessuno del villaggio per via della sua fattura. Il primo che ci
incappa, Bernhardt, incuriosito prova a tirarla, ma si rende ben presto conto
che è saldamente legata o trattenuta da qualcosa; la segue per qualche metro e
poi scoraggiato torna indietro. Chi se ne importa di una stupida corda! Lui ha
ben altro a cui pensare: la sua famiglia. Sua moglie Agnes e la sua piccola
Elizabeth, appena nata. Pure gioie famigliari. Tuttavia la curiosità dilaga in
poco tempo tra gli abitanti del villaggio, finché un giorno Michael, Ulrich e
Raimund (appoggiati dalla piccola comunità) decidono di inoltrarsi un po’ nel
bosco per vedere come disincagliare la fune. Il risultato è un disastro:
ritornano di corsa dopo essere stati attaccati dai cinghiali. Uli è ferito ad
una gamba in modo serio e Agnes decide col marito di occuparsi di lui. Invece
che affievolirsi, l’interesse per la misteriosa fune aumenta, assumendo il
fascino di un enigma da risolvere a tutti i costi. Una questione di principio
insomma. E così una mattina tutti gli uomini del villaggio (esclusi gli anziani
e Johannes) partono alla ricerca del bandolo della matassa con la promessa di
tornare in giornata. A loro si è unito Rauk, il maestro di un villaggio vicino,
un novello Ulisse dalla lingua superdotata di belle parole, atte a convincere
chiunque di qualsiasi cosa. Eccoli lì dodici Teseo in bella mostra che seguono
una fune senza nessuna Arianna ad aiutarli. Tanti piccoli topolini che seguono
il suono del flauto di Rauk. I giorni passano, diventano due, poi tre, poi
quattro e il mistero è sempre più fitto. L’orgoglio e la curiosità impedisce
agli uomini di tornare a mani vuote, ma non impedisce a Bernahardt e ad Alfred
di incamminarsi al contrario, tornando al villaggio. Anche se al villaggio non
ci arriveranno. Bernhardt si ferisce seriamente ed è costretto a mandare avanti
Alfred da solo, il quale, a causa di un malore, si accascia non molto lontano
tra le felci. Mentre il gruppo di Rauk procede, sempre più convinto e sempre
più inferocito, arrivando a saccheggiare un villaggio abbandonato ma perfettamente
in ordine, nel loro villaggio, il panico e lo sconcerto, dopo essere aumentati
vorticosamente, hanno lasciato posto alla concretezza; è il momento di mietere
i campi e tutti coloro che sono rimasti al villaggio (donne, anziani, bambini,
Uli e Johannes) devono lavorare per mettere al sicuro il bene prezioso. Peccato
che non ne abbiano il tempo, perché una furiosa tempesta si abbatte
improvvisamente sul villaggio, distruggendo tutto il raccolto e seppellendolo
sotto uno spesso strato di grandine. Allo scadere di tre settimane di assenza e
attesa la comunità decide di andarsene: non hanno più scorte e sono costretti a
rivolgersi ad un villaggio vicino; riordinate le case e fatti i bagagli, si incamminano.
Lontani miglia e miglia gli uomini ancora persistono nella loro impresa, affrontando
serpenti e lupi, costantemente trascinati dal carisma di Rauk.
Non
posso svelare il finale, anche se è abbastanza facile da intuire. Come precedentemente
detto, questo libricino contiene una morale, non una storia. È un vorticoso
vento che soffia in avanti gli uomini sorretti da curiosità e brama. Un vento
difficile da gestire ed impossibile da controllare, che sembra essere a nostro
favore fino a quando non ci ha spinto troppo lontano. Perché “quando la felicità
è troppo grande, diventa una pena”.
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