domenica 7 giugno 2015

Un giorno questo dolore ti sarà utile


Inizio: 5 giugno 2015
Fine: 7 giugno 2015
Ho letto il titolo e mi è scappato da ridere. Una risata amara di chi non crede più. Di chi ha capito che le cose vanno come devono e basta, alla faccia del merito e dell’impegno. La mia migliore amica, però, mi ha un po’ spinta con quel fare da “che male potrà mai farti”, così, complici gli sconti da Giunti, l’ho preso. Non mi ha fatto male e non mi ha fatto bene, però mi è piaciuto molto. Sono d’accordo con Valeria Parrella che, in quarta di copertina, ha scritto che il personaggio di James resterà nella memoria. Lui non rappresenta il classico diciottenne, anzi rappresenta una fetta molto esigua di diciottenni; mi spiego meglio: è una fase un po’ particolare della vita di ognuno, quel passaggio forzato tra l’adolescenza e la vita adulta. Spesso sorgono contraddizioni negli individui, uno spirito di avversione verso tutto, di ribellione, di isolamento, di eccessi… tuttavia una piccolissima parte di ragazzi si sente esattamente come James. Introspettivi al limite, eccezionalmente intelligenti, incompresi e … inutili. Quell’inutilità tipica di chi non sa bene cosa fare della propria vita. Scontrosi, con un pizzico di cattiveria, di dispetto per meglio dire. E qui, secondo me sta la forza di questo personaggio eccentrico nel suo sentirsi banale e eccezionale nelle sue riflessioni, non così impossibili per un diciottenne, semplicemente rare (anche lessicalmente parlando). Non ho idea se James alla fine vi risulterà sgradevole o vi piacerà… ma credo che indubbiamente vi lascerà qualcosa.

New York, 2003. James Dunfour Sveck ha diciotto anni e le idee decisamente chiare. Non gli importa di nulla e non gli va a genio niente, a partire dalle persone. Ma attenzione: questo senza alcuna accezione negativa, tutt’altro! Un vivi e lascia vivere, diciamo, con un tocco di sociopatia da incompatibilità. Perché James ha una profondità tutta sua e la banalità dei più lo sconforta, lo offende e lo deprime. A partire da quella sua (non tanto ordinaria) famiglia. Sua madre Marjorie (che ha già due divorzi alle spalle) è rientrata dopo soli quattro giorni di luna di miele perché Barry, neo (e prossimo ex) marito le ha scucito di nascosto la bellezza di 3000 dollari in una sola notte, suo padre Paul Sveck, invece sembra non dargli tregua parlando dell’università e della possibile omosessualità di James; sua sorella Gillian vive in un mondo tutto suo scaturito, in parte, dalla relazione che ha con uno dei suo professori all’università, Rainer Maria Schultz. Senza troppi giri di parole James ci introduce nel suo mondo, parlando in prima persona. Ci porta con sé nella Galleria d’arte moderna della madre, gestita in modo abbastanza autonomo da John Webster e dove anche lui lavora; ci accompagna al quarantanovesimo piano a pranzo con il padre sempre così attento a tutto da non accorgersi di niente; ci porta a conoscere Nanette, la nonna di ottantanni che lui semplicemente adora, l’unica assieme a John che James stimi e con la quale parli volentieri. Eh già, perchè lui, di parlare, solitamente non ha voglia. Non ama farlo tanto per dar aria alla bocca: se uno parla deve avere qualcosa di interessante da dire, diversamente tanto meglio sarebbe che tacesse. Non mette in voce i pensieri anche perché non esiste un canale perfetto e diretto che li renda come realmente sono: nella comunicazione il linguaggio mentale viene tradotto e ciò che è tradotto non è mai uguale all’originale. Non parla, non racconta di sè James, non sembra avere amici, non esce (se non per portare fuori Mirò, il cane), non va dove normalmente andrebbe un diciottenne, non ha interesse per nulla che non siano l’arte o la lettura e soprattutto non è felice. Non sa nemmeno lui quale sia motivo, ma, pur facendo ciò che desidera, non è soddisfatto. La situazione precipita durante un viaggio organizzato a Washington, al quale deve partecipare per un concorso nazionale. Lui, che aveva fatto di tutto per esserne escluso, scrivendo un tema a dir poco politically uncorrect, si ritrova invece ad essere scelto e spedito negli uffici governativi in gita. Impossibilitato a reggere oltre il terzo giorno, semplicemente scappa, prende una stanza in un albergo e tanti saluti. La goccia ha fatto traboccare il vaso. James vince così un biglietto di sola andata per la psichiatra Adler, che come tutti gli altri sembra non avere alcun tipo di influenza su di lui, l’unico risultato, al massimo è quello di indisporlo, irritarlo e farlo sentire un bambino all’asilo. Non è che tutto sia da difendere in lui: James non si sforza di andare d’accordo con gli altri, di socializzare, di conformarsi; spesso sottovaluta i sentimenti degli altri e il dolore che le sue azioni possono causare. Insomma, è il classico diciottenne problematico, sotto questo aspetto.

Eppure mi è piaciuto. Mi è piaciuto moltissimo, sia lui che il libro in sé. Ho letto molte recensioni negative, ma credo che il libro sia molto meno banale di quanto non possa sembrare. Forse bisogna avere l’attitudine giusta, lo spirito giusto, o forse semplicemente basta essersi sentiti nella vita un po’ come James. Cosa che a me è capitata parecchio e ancora molto spesso capita. Essere incompresi, talmente tanto spesso che alla fine non si ha nemmeno più voglia di spiegarsi e si diventa anche un po’ psicosnob… della serie “tanto nessuno mi capirà mai”. È triste da dire, ma è assolutamente vero: perché la maggioranza delle persone ha bisogno di mettere gli altri in boccette, di etichettare stili e comportamenti, forme di pensiero e di vita, di farli rientrare in schemi preconcetti (con i preconcetti che cambiano di secolo in secolo ma sempre preconcetti sono) perché diciamocelo è la natura umana che ce lo impone. Quello che non possiamo capire e classificare ci spaventa. Ma perché? Alle volte non basterebbe solo essere? A quanto pare no. E questo è il male di James, dal quale forse non guarirà mai. Voglio lasciarvi con una frase che ho trovato bellissima e molto significativa:

Sono rimasto zitto. Aveva ragione e lo sapevo, anche se questo non cambiava nulla. La gente pensa che se riesce a dimostrare di avere ragione l’altro cambierà idea, ma non è così”.

Nessun commento:

Posta un commento